Santa Lucia veronese


Il 13 dicembre coincideva anticamente con il solstizio d’inverno. È il momento in cui, in epoca precristiana, questo giorno simbologiava la luce. Usanze ad esso legate favorirono il nascere di numerose e diversificate tradizioni popolari intorno alla figura di Santa Lucia.

Un’antica leggenda veronese racconta che, attorno al XIII secolo, tra i bambini fosse scoppiata un’epidemia di “male agli occhi”. La popolazione decise di chiedere la grazia a Santa Lucia, santa e martire siciliana vissuta a cavallo tra il III e il IV secolo d.C., compiendo un pellegrinaggio a piedi scalzi fino alla chiesa di Sant’Agnese, situata dove oggi si trova Palazzo Barbieri, edificio ottocentesco sede del comune di Verona. 

I bambini, intimoriti dal freddo erano restii ad affrontare questo pellegrinaggio e quindi i genitori, allo scopo di farli partecipare, si dice abbiano promesso loro che, se avessero ubbidito, la Santa avrebbe fatto loro trovare, al ritorno, tanti doni. I bambini accettarono e si racconta che fu proprio in questo modo che l’epidemia svanì. 

Da questo momento in poi, nei secoli successivi, si è tramandata di generazione in generazione la tradizione che ogni notte del 12 dicembre, i bambini aspettano l’arrivo di Santa Lucia che porta loro gli attesi regali a bordo di un asinello volante, accompagnata da suo fedele aiutante Gastaldo. Tradizione vuole inoltre che si lasci un piatto sul tavolo con del cibo con cui sia lei, sia Gastaldo che l’asinello possano ristorarsi.

In questa sera i bambini infatti devono andare a letto presto per evitare di imbattersi in Santa Lucia che, si dice, accechi con la cenere i bambini che trova ancora svegli. La mattina dopo, con somma gioia dei più piccoli, Lucia fa trovare loro il piatto colmo di dolci e tanti regali.

Santa Lussia è una delle tante filastrocche popolari che si recitano per questa occasione:

Cos’elo ‘sto fredo?
Par d’esser en Russia.
Scoltelo, el ve dise:
“Gh’è qua Santa Lussia”.
Gh’è i fossi ‘ngiasadi,
gh’è el vento che tira,
en strada se sbrissia,
ma ela la gira.
L’è inutile cari,
nessuno la vede
parchè l’è ‘na santa,
ma ci no ghe crede?
La gira de note
che tuti i è en leto,
portandose ‘nsieme
castaldo e musseto.
La va par le case
la infila i camini,
gh’è i mostri che dorme
gh’è tuto che tase.
Stè chieti, putini,
dormì, ma dal bon,
che a verser i oci
la buta el sabion.
Gh’è proprio un parecio
là insima ‘na tola.
“Qua, deme castaldo,
un cuco che sïola,
‘na spada, un puoto,
‘na tromba, un tamburo,
‘na bala de goma
che sbalsa sul muro,
un s-ciopo a do cane,
un treno de lusso.
Ve par che sia poco?
Slongheme quel musso!
Po’ ancora qualcosa
da trar nel palato:
do conse, ‘na steca
de bon mandorlato,
e pomi e naransi,
che comoda i denti,
mi sa ‘ste putini
voi farli contenti”
Così Santa Lussia
la parla al castaldo,
po’ i bei puteleti
che dorme nel caldo,
pianin, sensa s-ciochi
en fronte la basa
e via de volada
la cambia de casa.

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